Dopo che, a fine ottobre 2021, è stato chiuso il processo di appello per Assange, questi giorni che stiamo vivendo sono quelli della lunga attesa del verdetto.
Un’attesa che riguarda il mondo intero, riguarda tutti noi, riguarda i nostri diritti.
E non si parla solo di diritti di accesso all’informazione e alla conoscenza.
Si parla anche e soprattutto di diritti umani. Diritti umani violati ai danni del giornalista Assange.
Si parla di libertà di informazione che è connessa all’accesso all’informazione e alla conoscenza e anche, diciamolo pure, al fenomeno del whistleblowing.
Questo verdetto non deciderà solo di Assange, deciderà delle sorti del giornalismo, del suo scopo, della sua missione, della sua esistenza stessa.
Perché? Ce ne parla Sara Chessa, giornalista per Independent Australia e ricercatrice per Bridges for Media Freedom, organizzazione impegnata nell’ambito dei diritti umani e della difesa della libertà di informazione e di pensiero.
Segue da vicino il caso Assange, sia nelle sue vicende londinesi sia in altri contesti rilevanti – per esempio presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo – raccontandone fatti e retroscena per i lettori di Independent Australia e partecipando, in virtù del proprio ruolo attivo in seno a Bridges for Media Freedom, alle iniziative di sensibilizzazione delle figure istituzionali europee sul caso.
Assange, il dramma di un "prigioniero"
Buongiorno Sara, come sta Julian Assange? Hai notizie recenti?
«Julian Assange sta come ognuno di noi starebbe se posto di fronte alla possibilità di vivere, fino alla vecchiaia, nella versione più terrificante del sistema carcerario statunitense, quella delle Misure amministrative speciali. In tale regime, secondo la testimonianza resa durante il processo in primo grado dall’avvocato americano Eric Lewis, è possibile, per esempio, che il prigioniero trascorra del tempo in catene, che la riservatezza delle conversazioni con i suoi legali sia negata, che non gli sia permesso di mescolarsi con nessun altro e che persino l’esercizio fisico avvenga a tarda notte, in modo da tenerlo lontano da tutti gli altri.
Inoltre, una persona che, come Assange, si trovi di fronte questo scenario, difficilmente può liberarsi dal timore che tale isolamento comporti anche il rischio di ritrovarsi in balia delle stesse forze repressive che, a livello di agenzie governative, durante l’amministrazione Trump, hanno discusso il progetto del suo sequestro, avvelenamento o assassinio (questo è quanto emerge sia da una recente inchiesta di Yahoo News sia, soprattutto, dai documenti di un processo in corso in Spagna, relativi allo spionaggio effettuato – all’interno dell’ambasciata ecuadoriana – da un’agenzia di sorveglianza privata, accusata di essersi alleata con i servizi segreti americani per registrare le conversazioni di Assange con i suoi avvocati, medici e amici).
Per avere un’idea di come l’editore di WikiLeaks stia, possiamo immaginarci soli nella cella di un carcere britannico di massima sicurezza, mentre, da più di due anni, attendiamo che una lunga ed estenuante successione di udienze ci dica se saremo trasferiti in uno stato il cui governo abbiamo messo in imbarazzo con la nostra attività giornalistica. E che, per questo motivo, chiede con tanta determinazione che gli veniamo consegnati per essere processati, con capi di imputazione che possono portare fino a 175 anni di prigione, vale a dire un addio alla vita, alla famiglia, a tutto ciò che abbiamo di più prezioso. Così sta Julian Assange.»
“Deriso, non creduto e colpito da una campagna diffamatoria di proporzioni enormi“
«Inoltre, è importante ricordare che il suo incubo non è iniziato soltanto due anni e mezzo fa, quando è stato prelevato dall’ambasciata ecuadoriana a Londra, dove godeva dello status di rifugiato. È iniziato molto prima, appena dopo il 2010, anno in cui i diari di guerra afghani e iracheni sono stati pubblicati, aprendo gli occhi del pubblico su crimini terribili, dei quali ogni cittadino aveva il diritto di sapere. Già allora, anni prima che il mandato d’arresto fosse emesso, Assange aveva avvertito che gli Stati Uniti avrebbero probabilmente portato avanti ritorsioni nei suoi confronti.
Deriso, non creduto e colpito da una campagna diffamatoria di proporzioni enormi, Assange è andato a dormire con questo pensiero per anni, anche dopo aver trovato rifugio nel complesso diplomatico ecuadoriano nel Regno Unito, nel 2012. Le stesse accuse di cattiva condotta sessuale che ha ricevuto in Svezia, ora archiviate, sono state descritte dal relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura Nils Melzer come “fabbricate”, oltre a essere considerate dallo stesso Assange come una forma di vendetta per le rivelazioni che ha pubblicato.
Questo calvario ha influito negativamente sulla sua salute mentale, tanto da far temere alla giudice in primo grado che l’editore di WikiLeaks, se trasferito negli Stati Uniti, avrebbe avuto alte probabilità di commettere suicidio. Se immaginiamo noi stessi coinvolti in una simile situazione, avviati versi decenni di isolamento, con pochissimi contatti con l’esterno e con la consapevolezza di poter avere a che fare con quelle agenzie che si sono mostrate determinate a punirci senza alcun riguardo per i nostri diritti umani, sono certa che possiamo farci un’idea di come lui stia. Julian Assange è anche un figlio, un compagno, un genitore.»
L’incontro con il padre
«Ho incontrato di recente suo padre, di rientro dal carcere di Belmarsh, dove lo aveva appena visitato. Ciò che comprendo è che i brevi momenti delle visite carcerarie sono quelli da cui giunge l’unico possibile sollievo, quello dato dal vedere i suoi bambini, la sua compagna Stella Moris e i suoi cari. Da poco, Stella e Julian hanno ricevuto l’autorizzazione a sposarsi all’interno del centro di detenzione in cui lui si trova. Sappiamo che questa possibilità gli ha dato gioia. Svanita mesi fa la possibilità che l’epoca Biden portasse a un ritiro della richiesta di estradizione (presentata dalla precedente amministrazione Trump), tutti coloro che lavorano per la libertà di Assange – Ong, attivisti, figure politiche impegnate in ambito diritti umani – si augurano che questa iniezione di speranza legata al matrimonio lo aiuti nella condizione spaventosamente difficile che vive, in attesa della sentenza del processo di secondo grado sull’estradizione, che dovrebbe arrivare entro fine anno.»
Entrare in possesso di informazioni riservate è parte dell’ordinario lavoro giornalistico
Assange si è battuto per la divulgazione di informazioni riservate e classificate che avevano però un interesse globale e vitale per il pubblico. Ha forse stabilito un nuovo “principio di accesso” alle informazioni?
«La libertà dei media è da sempre individuata come presupposto fondamentale per poter definire una democrazia come tale. È grazie a un effettivo riconoscimento del diritto di accesso alla conoscenza se il pubblico può valutare il reale operato dei propri governanti. Ed è il giornalismo investigativo a svolgere una funzione essenziale in questo processo, guardando oltre gli scenari di superficie e consentendo una visione via via più chiara della realtà, spesso attraverso la ricerca, l’analisi e la condivisione di documenti riservati.
Questo non è dunque un “principio” nuovo, ma piuttosto un elemento essenziale dell’attività giornalistica. Non per niente, durante lo stesso processo Assange, Mark Feldstein, professore ordinario del Dipartimento di giornalismo dell’Università del Maryland, ha ricordato che, all’interno di istituzioni accademiche come quella di cui lui fa parte – volte a formare i reporter – è una pratica normale quella di insegnare agli studenti come entrare in possesso di informazioni riservate. Questa attività è dunque parte dell’ordinario lavoro giornalistico.
In alcuni casi, viene portata avanti attaverso strumenti che si sono ampiamente diffusi come mezzo di riconoscimento del diritto alla conoscenza, quali le richieste di accesso agli atti, chiamate nei paesi anglosassoni “FOIA” (da Freedom of Information Act). In altri casi, richiede la ricerca di fonti umane attendibili e l’intrattenimento di relazioni con queste ultime, cosa che per esempio Julian Assange ha fatto nel caso di Chelsea Manning, ex analista dell’esercito attraverso la quale sono arrivate molte delle informazioni diffuse da WikiLeaks.
Questo mostra che il lavoro svolto da Assange è essenzialmente giornalistico. Non parlerei di “nuovo principio” se stiamo discutendo i punti di riferimento etici, in quanto ciò che mi sembra Assange e WikiLeaks facciano è rimanere fedeli a un principio che già, a livello ideale, è posto alle fondamenta della democrazia e del bene comune. Nella tua domanda parli, infatti, di “informazioni di rilevanza globale e vitali per il pubblico”. È precisamente nell’interesse di quest’ultimo che WikiLeaks ha agito, consentendo ad esso di comprendere, per esempio, quanto la realtà delle guerre in Afghanistan e Iraq fosse diversa da quella che il cittadino poteva immaginarsi seguendo le narrazioni ufficiali.»
“Se le guerre possono essere iniziate grazie a delle bugie, la pace può iniziare grazie alla verità”
«Quindi, ciò che Assange attraverso il suo lavoro di giornalista e editore ha fatto, più che “stabilire” un nuovo principio di accesso, è stato ed è incarnare nella realtà concreta – con sorprendente integrità – quel principio che, a livello teorico, noi poniamo già alla base di quanto di più prezioso abbiamo conquistato come umanità a livello politico, ovvero alla base della democrazia.
Quando sottolineo che lo ha fatto con “sorprendente integrità”, mi riferisco al fatto che non è mai tornato indietro riguardo ai propri principi, è andato incontro alle conseguenze di una rivelazione di questioni di interesse globale, mantenendo nel corso degli anni la consapevolezza di aver agito in tal modo per l’interesse pubblico a ricostruire la realtà dei fatti. È sua l’affermazione secondo cui “se le guerre possono essere iniziate grazie a delle bugie, la pace può iniziare grazie alla verità”. E, andando oltre le citazioni, passando ai fatti, se torniamo ancora una volta alle testimonianze ascoltate dalla corte durante il processo in primo grado, possiamo trovare traccia dell’integrità di cui parlo nel resoconto dell’avvocato Jennifer Robinson. In base a questo, durante il periodo di permanenza presso l’ambasciata ecuadoriana, Assange rifiutò l’offerta di una grazia presidenziale completa.»
L’integrità, l’etica, l’eventuale grazia e la protezione
«Quest’ultima gli era stata offerta nell’agosto 2017 dall’allora deputata Dana Rohrabacher, la quale provò a chiedergli in cambio una dichiarazione pubblica attestante che la fonte dei documenti del Partito democratico americano pubblicati da WikiLeaks non non fosse la Russia. Assange rifiutò questo “scambio”, funzionale agli interessi dell’allora presidente Trump, in quanto secondo l’etica di WikiLeaks le fonti non devono essere rivelate. La sua vita sarebbe stata certo più semplice a seguito di una possibile grazia, che avrebbe posto fine a quella che anche un Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite ha identificato formalmente come detenzione arbitraria. Tuttavia, l’elemento “integrità” che pervade l’intera storia di Assange è prevalso, come già prevaleva nel corso del lavoro di rivelazione dei documenti riservati, come mostrato per esempio dalle dichiarazioni giurate di John Goetz, un giornalista investigativo tedesco che ha collaborato con WikiLeaks con riferimento al rilascio di informazioni dai registri di guerra e di un’enorme mole di documenti diplomatici statunitensi. Goetz, davanti alla giudice in primo grado, riferendosi a una delle principali argomentazioni dell’accusa contro Assange, ovvero quella secondo cui quest’ultimo avrebbe messo in pericolo la sicurezza di persone che avevano fornito informazioni all’esercito americano, ha descritto la avvenuta rimozione dai documenti – da parte di WikiLeaks – dei nomi di tali informatori come “un processo robusto”. Un’operazione addirittura “frustrante” per i ritardi che la pubblicazione dei dati subiva, a causa del tempo investito nello screening dei documenti.
Quest’ultimo, secondo la testimonianza giurata fornita da Goetz, comportò anche un consistente impiego di risorse economiche, come pure l’utilizzo di server sicuri e crittografia per la conservazione dei documenti non redatti. Goetz ha anche riferito alla corte di aver partecipato a una chiamata con il Dipartimento di Stato americano, durante la quale quest’ultimo ha dato ai giornalisti coinvolti nell’operazione i numeri di pagina dei documenti che creavano preoccupazione.
I nomi di informatori contenuti in tali pagine sono stati poi rimossi prima della pubblicazione. Tutti questi esempi confermano che, come ho detto inizialmente, più che stabilire un nuovo “principio” di accesso alla conoscenza, Assange risulta aver “portato nella materia” un principio che nel mondo delle idee abbiamo sempre considerato come cardine della democrazia. E, come ho spiegato, lo ha fatto mantenendo fermi i parametri etici che attribuiamo alla professione giornalistica.»
Il cambio di “genere”
«Quanto al fatto che WikiLeaks sia un fenomeno del tutto nuovo, rimane da analizzare un altro aspetto, quello relativo al “cambio di genere”. Il passaggio, cioè, a una forma di giornalismo in cui mettere a disposizione del pubblico i dati e la loro analisi diventa centrale. Certo, chi ha analizzato WikiLeaks a partire dal 2010 ne vede il carattere rivoluzionario, perché potenzialmente in grado di utilizzare la rete Internet e la tecnologia in maniera tale da chiedere conto ai governi del loro operato.
Tra i tanti analisti, il giornalista Andrea Fama, nel suo libro “Open data – Data journalism” del 2011, definisce le rivelazioni di WikiLeas come “il più roboante e ingombrante (in tutti i sensi) esempio di data journalism finora dato in pasto al pubblico”. Ecco, quel “finora” rimanda ad altri esempi esistenti.
Studiando a ritroso i media con riferimento a questo aspetto possiamo tornare indietro fino al 1821 e trovare quello che è probabilmente il primo caso di data journalism al Guardian, in cui una tabella trapelata delle scuole di Manchester elenca il numero di studenti che hanno frequentato e i costi per scuola, mettendo in evidenza che il numero reale di studenti che ricevevano l’istruzione gratuita era molto più alto di quanto mostrato dai numeri ufficiali.
In tempi più recenti abbiamo il cosiddetto computer-assisted reporting, o CAR, primo approccio sistematico all’uso dei computer per analizzare i dati al fine di migliorare le notizie.
Dagli anni Sessanta, i giornalisti investigativi statunitensi hanno cercato di monitorare in modo indipendente il potere analizzando i database di documenti pubblici con metodi scientifici, facendo quello che è stato definito “giornalismo di servizio pubblico” e concentrandosi spesso sul rivelare le ingiustizie.»
Un percorso verso la “trasparenza”
«Come possiamo vedere, nel corso del tempo ci sono stati diversi casi di focus giornalistico sui dati e altri se ne potrebbero elencare. Se torniamo però alla definizione che Andrea Fama dà di WikiLeaks, come esempio di più grande impatto nell’ambito del data journalism, e proviamo a sintetizzare una ragione per questa affermazione, il primo concetto a venire alla mente è sicuramente l’apporto che l’organizzazione di cui Assange è fondatore ci ha dato in termini di percorso verso la “trasparenza”.
Questo apporto è avvenuto proprio attraverso la possibilità, data al pubblico, di accedere al “dato senza filtri”. Dunque, anche affrontando il discorso dal punto di vista del “genere” giornalistico che WikiLeaks rappresenta, torniamo ancora una volta al principio che descrivevo all’inizio di questa risposta, il principio che dovrebbe muovere l’intero mondo dei media, ovvero l’intento di accrescere progressivamente la consapevolezza del pubblico circa la realtà, primo passo essenziale perché una comunità (locale, regionale o mondiale) individui come trasformare la realtà stessa nella direzione del bene comune.
Questo Assange ha fatto passaggio dopo passaggio, dando – credo – ad altri la spinta per fare lo stesso. Confermo dunque ciò che dicevo all’inizio: non ha inaugurato un “nuovo valore”, ma ha espresso nel modo più compiuto e integro possibile un principio che già, come umanità, abbiamo identificato come anima della libertà di informazione e dell’accesso alla conoscenza.»
Chi opera all’interno di istituzioni internazionali legate ai diritti umani comprende bene che l’estradizione di Assange può generare un pericolosissimo precedente
Restando in tema di diritti, nel caso Assange vi è una violazione di diritti fondamentali, tra cui la libertà dell’individuo, come affermato da diverse organizzazioni, da Amnesty International all’ONU. Si sta muovendo qualcosa, a livello internazionale, per tutelare questi diritti?
«A livello internazionale c’è più movimento di quanto si possa ritenere. Uno dei momenti chiave, a livello internazionale, è stata la risoluzione approvata a gennaio 2020 dalla Assamblea parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE, secondo l’acronimo inglese), in cui si chiedeva la liberazione immediata dell’editore di WikiLeaks.
Come è noto, il Consiglio d’Europa non è una istituzione dell’Unione Europea. È, invece, una entità a sé stante, che ha sede a Strasburgo.
Per la precisione, si tratta dell’istituzione più importante del continente con riferimento ai diritti umani e, per l’appunto, comprende al suo interno anche la Corte europea dei diritti umani.
Ne fanno parte sia paesi Ue sia paesi non-Ue, per un totale di quarantasette stati membri. Il fatto che la sua assemblea interna, composta da delegazioni di parlamentari dai diversi Paesi, abbia approvato una simile risoluzione in favore del rilascio di Assange è un fatto molto importante.
Alcuni parlamentari, in particolare Andrej Hunko e Gianni Marilotti, si sono fatti promotori di questo testo, che è stato poi votato e aggiunto a un più ampio documento sulla situazione della libertà dei media in Europa.
È stato il primo caso in cui una istituzione europea si è pronunciata a riguardo, dopo anni in cui il clima generale a livello politico (e a livello di media mainstream) era completamente appiattito sul supporto di una costante campagna di diffamazione portata avanti ai danni di Assange, in primo luogo attraverso le accuse svedesi di cui abbiamo già parlato.»
Risalita della consapevolezza generale riguardo alle violazioni dei diritti umani ai danni di Assange
«Questa operazione di discredito del personaggio aveva l’effetto di ostacolare, nella società civile, la comprensione della rilevanza del lavoro di Assange ai fini dell’interesse pubblico.
In un certo modo, una affermazione così chiara da parte dell’assemblea del Consiglio d’Europa, ha dato il via a una risalita della consapevolezza generale riguardo alle violazioni dei diritti umani a cui l’editore di WikiLeaks è sottoposto.
Secondo fatto rilevante a livello internazionale è quello che ha visto protagonista, qualche settimana dopo, l’Alto commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović, la quale in una nota ha affermato che Assange non deve essere estradato, sia perché questo mette a rischio la libertà di stampa, sia per i maltrattamenti che potrebbe subire negli Stati Uniti.
Non bisogna credere che quanto viene affermato in Consiglio d’Europa, in quanto non vincolante per gli stati, non produca i suoi effetti.
Per me, che spesso mi reco presso tale istituzione per ragioni di lavoro, l’esistenza di un intenso e costante lavoro a favore della liberazione dell’editore di WikiLeaks è evidente.
In particolare, bisogna considerare che è l’assemblea stessa del Consiglio a eleggere i giudici della Corte europea dei diritti umani (ECHR) e che, verosimilmente, sarà questa corte a decidere, in ultima istanza, circa l’estradizione di Assange, una volta che il percorso giudiziario nel Regno Unito sarà terminato.
Se, infatti, il giudice di secondo grado, tra qualche settimana, dovesse dire “sì” all’estradizione – capovolgendo il verdetto della giudice in prima istanza – Assange potrebbe fare appello proprio alla Corte europea dei diritti umani.
È dunque un buon segno che l’organo incaricato di eleggere i giudici di tale corte sia lo stesso che si è pronunciato con enfasi a favore del rilascio immediato.»
La possibilità di un pericoloso precedente
«Chi opera all’interno di istituzioni internazionali legate ai diritti umani comprende bene che l’estradizione di Assange può generare un pericolosissimo precedente, portando a una situazione in cui una grande potenza può richiedere con facilità l’estradizione di qualunque giornalista investigativo pubblichi materiali per essa imbarazzanti.
Questa possibilità genererebbe un effetto dissuasivo per ogni operatore dei media consapevole di questo rischio, riducendo esponenzialmente la disponibilità di informazioni per il pubblico, quelle informazioni che abbiamo detto essere essenziali per valutare l’operato dei governanti.
Per questo, per esempio, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura si è fatto sentire diverse volte sulla questione, mettendo anche in guardia di fronte al “no” all’estradizione pronunciato dalla corte in prima istanza, in quanto questo è comunque motivato solo sulla base di questioni relative alla salute mentale di Assange.
In altre parole, tra le ragioni del “no”, la giudice non ha elencato quelle relative alla difesa della libertà dei media, dell’accesso del pubblico alla conoscenza e della libertà di pensiero dell’editore di WikiLeaks.
La battaglia dunque continua, su questo fronte come su quello dei diritti umani di Assange, che secondo lo stesso Melzer presenta i chiari segni di un lunghissimo periodo di tortura psicologica.»
La tortura dei “democratici”
«Addirittura, Melzer afferma di non aver mai visto, in vent’anni di lavoro nell’ambito di situazioni legate alla tortura, un caso in cui un individuo sia stato sottoposto a persecuzione nella maniera in cui lo è stato Assange a opera di quattro stati democratici, ovvero gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Svezia e l’Ecuador (quest’ultimo responsabile di avergli tolto di punto in bianco lo status di rifugiato, consentendo il suo arresto).
Come Melzer, altre figure pubbliche si sono mosse e si muovono, cercando di costruire un ponte tra un momento storico paradossale, in cui un editore è in prigione per aver rivelato dei crimini di guerra, e un futuro – speriamo vicino – in cui Assange sarà liberato e avremo un motivo vero per tirare un sospiro di sollievo, tanto per i suoi diritti umani quanto per i nostri.
Perché questo ponte possa esistere, è necessario che sempre più figure politiche e governative abbiano finalmente il coraggio di parlare, come ha fatto per esempio in Islanda nel 2011 l’allora Ministro dell’interno Ögmundur Jónasson, che mi ha raccontato di aver letteralmente cacciato dal proprio paese l’FBI, dopo aver scoperto che degli agenti americani erano atterrati nel suo paese con lo scopo di incastrare Assange.»
Non si negozia sui diritti fondamentali
«Dovrebbe agire l’Australia, paese di cui Assange è cittadino.
Dovrebbero pronunciarsi tutti i governi che sull’Australia possono influire.
E, naturalmente, dovrebbero farlo esponenti dei governi europei, dato che a chiunque studi il sistema di diritto di questo continente viene spiegato che, qui da noi, i diritti fondamentali dell’individuo non sono negoziabili.
Consci che in molte carceri statunitensi sembrano invece esserlo, e che un giornalista non può essere incarcerato per aver reso il pubblico consapevole di fatti reali, i governi europei dovrebbero dimostrarla, quella non-negoziabilità che ci viene insegnata.
E, con un atto di coraggio che dovrebbe essere pura normalità, chiedere la liberazione di Assange.»
Un certo numero di studiosi italiani di ambito giuridico e filosofico segue il caso ed è attento ai suoi sviluppi
In Italia, la questione “Assange” è sempre meno presente nel dibattito pubblico, anche per il molto tempo trascorso. Com’è la situazione in altri Paesi?
«Non ritengo che sia meno presente che in passato nel dibattito pubblico.
Se lo è a livello governativo, non si può dire lo stesso a livello parlamentare, né a livello mediatico e, soprattutto, di società civile.
Vediamoli, a uno a uno, questi ambiti.
Bisogna rilevare, anzitutto, che esiste in parlamento un comitato trasversale nato per il monitoraggio del caso Assange.
È stato fondato dal senatore Gianni Marilotti nel novembre 2019, a seguito della visita in Senato di John Shipton, padre del fondatore di WikiLeaks.
Marilotti ha organizzato una conferenza pubblica presso la biblioteca del Senato, in cui Shipton era tra i relatori assieme a rappresentanti della stampa italiana (Giuseppe Giulietti) e parlamentari (Marta Grande, Primo Di Nicola e altri).»
Rapporto tra trasparenza e segreto delle carte
«Insieme a loro, il padre di Assange ha affrontato il tema del rapporto tra trasparenza e segreto delle carte, strettamente legato alla questione WikiLeaks.
In quell’occasione, tutti i relatori, anche chi non aveva particolare simpatia personale verso Assange, si sono trovati d’accordo circa il fatto che l’estradizione sarebbe sbagliata, per le stesse ragioni che abbiamo analizzato sopra.
Inoltre, da quel momento, il Comitato parlamentare per il monitoraggio del caso Assange è rimasto attivo, Marilotti ha partecipato alle udienze in Inghilterra e una serie di missive sono state inviate da lui e dai suoi colleghi a figure governative britanniche.
Una di queste all’inizio della pandemia, quando è stato chiesto al Ministro della Giustizia di concedere gli arresti domiciliari ad Assange, che già soffriva di problemi all’apparato respiratorio ed era dunque più esposto alla possibilità di sviluppare forme gravi di Covid-19.
In quel caso, la detenzione domiciliare non fu concessa, ma si tratta di comunicazioni che consentono al governo inglese di rendersi conto del fatto che altri paesi europei stanno osservando quanto accade.
Al di là di questo comitato, esistono nel Parlamento italiano anche altri deputati o senatori interessati al caso, per esempio Pino Cabras, che ha presentato di recente una mozione in favore della libertà di Assange presso la Camera dei deputati.
Ciascuna di queste azioni contribuisce all’aumento della consapevolezza generale del problema.
Passando ai media, certo non possiamo dire che seguano con costanza il tema, ma un contributo enorme è stato dato, in questo senso, dalla redazione del programma Presa Diretta, che nell’agosto 2021 ha dedicato al caso Assange una puntata e ripercorso l’intera sua vicenda.»
Chi si occupa di Assange in Italia
«Un’altra giornalista italiana, Stefania Maurizi, ha portato avanti un’impresa che nessun altro aveva tentato prima, ovvero quella di presentare richieste di accesso agli atti in diversi paesi per comprendere come stesse procedendo la gestione del caso Assange, all’epoca delle accuse ricevute in Svezia e ora cadute.
È grazie a questo suo lavoro se abbiamo scoperto che è stato il Crown Prosecution Service (il pubblico ministero britannico) a sconsigliare ai magistrati svedesi l’unica strategia legale che avrebbe potuto portare a una rapida soluzione del caso, ossia interrogare il fondatore di WikiLeaks a Londra, invece di cercare di estradarlo in Svezia semplicemente per interrogarlo.
Questo ha portato Assange stesso – che aveva invece tutto l’interesse a essere interrogato – a non poter chiarire la propria posizione e a rimanere per anni incastrato nell’immagine della persona che ha compiuto reati di natura sessuale, nonostante quelle accuse non siano mai state trasformate in capi di imputazione né tanto meno confermate.
Un’altra realtà che segue con attenzione il caso Assange, anche con interviste a personalità politiche britanniche impegnate nella sua difesa, è Byoblu.»
«In parallelo, a livello di società civile, esistono in Italia associazioni e gruppi che si stanno mostrando costanti e determinati nel mantenere vivo il dibattito.
Tra questi, molto attivi sono PeaceLink e Italiani per Assange.
Se poi andiamo a vedere l’ambito accademico, troviamo anche Filosofia in Movimento, la realtà con cui noi di Bridges for Media Freedom (la realtà per cui lavoro in Inghilterra) abbiamo avviato il progetto italiano “Libertà di informazione e diritti umani”.
Nel corso di questa iniziativa, il filosofo Antonio Cecere e io abbiamo ricostruito molti aspetti del caso Assange, intervistando personaggi chiave come il suo avvocato Greg Barns e il Segretario generale della Federazione internazionale giornalisti, Anthony Bellanger.
Abbiamo così osservato che, seppure spesso riluttante a intervenire in prima persona, un certo numero di studiosi italiani di ambito giuridico e filosofico segue il caso ed è attento ai suoi sviluppi.»
Il pubblico
«A ogni modo, posso dire di aver visto crescere, sia in Italia sia in altri paesi, nell’ultimo anno e mezzo, la sensibilità media verso le gravissime violazioni dei diritti umani a cui Assange è sottoposto, specie ora che è in carcere senza una ragione, tenuto lì senza pene da scontare e nonostante il “no” all’estradizione stabilito al primo grado di giudizio.
Al momento dell’arresto, due anni e mezzo fa, ero spaventata dalla quasi totale mancanza di reazioni da parte del pubblico.
Da allora, molte cose sono cambiate e sono ora in contatto con gruppi di attivisti dei più vari paesi, dalla Germania alla Spagna, dall’Australia agli stessi Stati Uniti.
Sono spesso gruppi che hanno poche migliaia di follower online, ma bisogna considerare che hanno spesso una base cittadina (“Melbourne for Assange”, per fare un esempio) e che ci sono tante città attive in ogni nazione.
Se poi devo parlare dell’Inghilterra, rimango spesso commossa dalla determinazione con cui da anni, lo stesso gruppo di attivisti si reca ogni sabato fuori dal carcere (e prima ancora fuori dall’ambasciata) per far sentire a Julian Assange che la gente non si è dimenticata di lui, che non è solo.
Riguardo alle Ong, esattamente come Amnesty, anche noi di Bridges for Media Freedom (che è un progetto britannico della Ong Blueprint for Free Speech) ci siamo mossi per la liberazione di Assange, in particolar modo organizzando, durante il processo in primo grado, una missione di osservatori politici provenienti da diversi paesi europei, che teniamo informati su ogni sviluppo.
Passando, per chiudere, dall’ambito delle Ong a quello dei sindacati, aggiungo che da circa un anno l’Unione nazionale dei giornalisti britannici (Nuj), di cui faccio parte, sta conducendo una campagna ben visibile a difesa di Assange.
Spero di vedere presto altri sindacati nazionali dei giornalisti assumere iniziative analoghe, in altri paesi.»
Il ruolo cruciale dei whistleblower e la necessità di proteggerli è stata riconosciuta come parte del diritto internazionale
Il whistleblowing è ritenuta una pratica scorretta da molti governi e istituzioni, eppure sembra essere, in alcune situazioni, l’unica via per la libertà di informazione. Qual è il confine tra principi come la sicurezza nazionale, il segreto di Stato e il diritto all’informazione? E chi può stabilire tale confine?
«In realtà, nel 2003, il ruolo cruciale dei whistleblower e la necessità di proteggerli è stata riconosciuta come parte del diritto internazionale.
In quell’anno, infatti, le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione contro la corruzione, firmata da 140 nazioni e formalmente accettata da 137 nazioni. Nel mondo di oggi, dunque, è difficile per un governo pronunciarsi apertamente in senso negativo verso i whistleblower, ossia verso quegli informatori che, dall’interno di una realtà pubblica o privata, rivelano reati e illeciti che è interesse del pubblico conoscere, per esempio crimini ambientali, discriminazioni, scambi di tangenti, situazioni che pongono a rischio i minori, e via dicendo.
A livello globale, c’è stato un crescente interesse nell’istituire leggi sui whistleblower e ci sono almeno 59 paesi che hanno stabilito protezioni specifiche per loro.
Come si può immaginare, infatti, sono spesso oggetto di ritorsioni da parte di quelle realtà che hanno visto il loro interesse particolare danneggiato dalle loro rivelazioni.
Anche l’Unione europea è intervenuta, con la Direttiva sui Whistleblower del 2019, che punta proprio a rimediare alla mancanza di misure deterrenti a carico di coloro che colpiscono gli informatori o ne danneggiano la vita professionale.
È un provvedimento recente e dunque nei prossimi anni si tratterà di valutarne l’efficacia.
In ogni caso, in un mondo interconnesso come il nostro, la protezione dei whistleblower va osservata a livello globale.»
La filiera del legame tra whistleblowing, libertà di informazione e accesso alla conoscenza
«La realtà per cui lavoro, Bridges for Media Freedom, si focalizza molto su questo aspetto, proprio per il legame, che tu evidenzi bene nella tua domanda, tra whistleblowing e libertà di informazione.
Noi diciamo spesso che questa libertà, strettamente legata al concetto di “accesso alla conoscenza”, ha una sua “filiera”.
Quest’ultima parte dalle fonti (di cui i whistleblower fanno parte), passa attraverso i giornalisti oppure attraverso i nuovi media (blog di notizie, piattaforme di citizen journalism e così via) per poi giungere al pubblico.
Esistono “canali” che connettono questi snodi della filiera e consentono alle informazioni di pubblico interesse di fluire fino a raggiungere la società civile.
Ci sono molte realtà che proteggono la figura del giornalista e questo è un bene, naturalmente.
Noi, però, nel nostro lavoro focalizzato sulla libertà dei media (e non solo sulle realtà giornalistiche classiche), intendiamo concentrarci su tutti gli attori che agiscono nella filiera di cui ho parlato, dunque sull’intero percorso che i dati compiono.
L’obiettivo è verificare che tutte le figure che favoriscono il processo siano tutelate.
Tra queste vi sono i whistleblower e non solo “qualche volta”.
Direi anzi che, con grande frequenza, le informazioni di pubblico interesse basate su evidenze verificabili ci arrivano grazie al loro atto di coraggio.
Come tracciare, mi chiedi, il confine tra sicurezza nazionale e libertà di informazione?
Non può essere tracciato in altro modo se non facendo riferimento all’interesse pubblico.»
Quanto siamo stati “addestrati” al pensiero critico?
«Non credo esisistano regole che lo stabiliscano a priori, a intervenire qui sono la coscienza e la capacità di valutazione dell’essere umano.
Se io sono una whistleblower, è attraverso la mia capacità di analisi che stabilirò se una certa informazione deve arrivare ai cittadini.
Se invece sono una giornalista e ho ricevuto dei documenti da un whistleblower, avrò il dovere etico di verificare l’autenticità dei dati ricevuti prima di metterli a disposizione dei miei lettori.
Se sono una delle nuove figure emerse nell’evoluzione dei media (per esempio una blogger o un cittadino giornalista), avrò lo stesso dovere di onestà intellettuale verso chi mi legge, anche se non dovesse esserci una carta deontologica formale a guidarmi.
Quello che sto cercando di dire è che una parte della valutazione su cosa sia indispensabile portare a conoscenza del pubblico avviene a livello individuale.
La capacità di operarla dipende, secondo me, dal livello con cui le istituzioni educative hanno “addestrato” al pensiero critico e al senso di comunità le diverse coscienze che intervengono.
Da qui, un ruolo centrale per tutto ciò che è formazione umana dell’individuo.
Tuttavia, al di là della sfera individuale, esiste un altro livello di azione che interviene nel tracciare il confine tra le necessità della sicurezza nazionale e quelle dell’interesse pubblico a conoscere la realtà.»
Aprire gli occhi
«Per semplificare, lo chiamerò livello “istituzionale”, comprendendo tutte le scelte di natura giuridica e politica che possono essere compiute nello stabilire dei criteri.
Di recente, Emily Bell, direttrice del Tow Centre for Digital Journalism ed ex firma del Guardian, ha affermato che WikiLeaks ha aperto gli occhi del giornalismo verso “gli scopi al di là della propria attività”.
Tra questi, penso quello principale sia la trasparenza, unica condizione che possa permettere al pubblico di valutare se si stia andando verso il bene comune oppure no.
La ricerca di trasparenza deve dirigersi anche verso il settore della sicurezza nazionale e indagare anche quest’ultima? Direi che non possiamo rispondere di no.
Certo, in una qualche misura, alcuni segreti – che implichino realmente la protezione del cittadino – saranno sempre necessari.
Tuttavia, credo che nessun individuo consapevole di cosa sia una democrazia potrebbe mai affermare che eventuali reati all’interno degli ambienti della sicurezza nazionale non dovrebbero essere oggetto di rivelazione da parte di whistleblower, o che il giornalismo investigativo focalizzato su tale ambito non dovrebbe esistere.»
La narrazione che l’Occidente fa di se stesso
«Se non esistesse, per esempio, WikiLeaks non ci avrebbe mai svelato quale orribile realtà si nascondesse dietro le guerre in Iraq e Afghanistan, perché quella realtà è stata portata alla luce scavando dove, in teoria, per la “sicurezza nazionale”, non avremmo dovuto farlo.
Se questo tipo di giornalismo non esistesse, insomma, continueremmo in massa a sostenere la propaganda che proponeva quelle due guerre e crederemmo ancora alla narrativa su carta patinata di un occidente trionfante.
È un esempio che rende l’idea?»
* La foto di Julian Assange è opera di Cancillería del Ecuador con licenza (CC BY-SA 2.0)
Stefania Lombardi è PhD in Filosofia Morale con una tesi che ha trattato temi che vertevano sull’apolidia e la filosofia di Arendt, in cui traspare la sua antica e rinnovata passione per Shakespeare. Fa parte, dal 2014, della Giuria del Premio Nazionale di Filosofia.
Il suo breve saggio, con supporto audiovisivo, “La società del surrogato” ha ricevuto una menzione speciale per l’edizione 2016 del premio internazionale “Catalunya Literaria”, classificandosi nella terna dei finalisti.